di Matteo Melchiorre
Avevo ottimi motivi per leggere questo libro e pure discrete attese. È celato dai nomi di fantasia, ma non troppo, il fatto che sia ambientato dalle mie parti e che parli di un ‘flagello ventoso’ che altro non è che Vaia. Tutto molto interessante… Il romanzo principia con una rapida spiegazione della situazione al contorno: in modo non abbastanza dissimile dalla quarta di copertina, inquadra il protagonista, rampollo di nobile famiglia che, rimasto orfano, decide di vendere il palazzo di città e andare a vivere nella residenza patrizia di montagna, con annessi terreni e boschi, e di gestirla personalmente. Essendo scritto in prima persona, si seguono i pensieri del protagonista che… (e qui si apre molta e ampia perplessità) si esprime come un uomo di due secoli fa!?! Il Duca, giovane uomo del nostro tempo, ragiona, argomenta e ci parla con l’ampolloso sussiego di suo bisnonno! Di seguito un esempio:
Ora, in nome della santa sospensione dell’incredulità, perché un giovane d’oggi si risolva a parlare e a pensare come un nobiluomo di fine ‘800, è necessaria a parer mio una qualche spiegazione. Una posa deliberata? Un disturbo psichiatrico? Nessuno che gli chieda di parlare come mangia? Presentato così come è presentato, no, suona solo strano, a tratti quasi buffo. Lo è in particolare la descrizione della relazione del protagonista con Maria, che culmina nella peggiore scena di sesso che abbia mai letto. Di qui la grande domanda che consegue naturale: c’era bisogno di una storia ambientata ai giorni nostri infarcita del lessico e delle atmosfere di un romanzo ottocentesco? Non si poteva meglio sincronizzare linguaggio e tempi, o ben ambientati nel passato o ben calati nel presente? Anche perché la prosa ricercata talora incoccia in imprecisioni più tipiche dei nostri tempi degenerati.
Questo brano non è l’unico in cui le ripetizioni si affollano, ma più in generale male s’abbinano le oziose elucubrazioni del nostro a confronto con un mondo fatto di rudi montanari, di pick-up e motoseghe. Pur non apparendo traccia della moderna tecnologia digitale, le date che l’autore fornisce inchiodano la vicenda ai giorni nostri. E allora cos’è il mondo d’oggi senza telefonini e internet? Una distopia? Per me è stato solo un grosso ‘boh’. A questo si aggiunga il fatto che l’interrogativo drammatico è per lo meno deboluccio (a me dei suoi seicento quintali di legna non interessa quanto a lui, evidentemente) e tutti i voli dell’animo del giovin signore si riducono a sciocchi capricci, pose da dama del ‘700 e frenesie di uno che non ha nulla di più importante a cui pensare. Qualcosa che si salva c’è, a voler essere onesti: belle le descrizioni, interessanti le ricostruzioni storiche del casato dei Cimamonte. Qui l’abilità dell’erudito si sente tutta e l’intreccio si fa interessante, anche se il modo in cui il Duca espone la rivelazione finale è ancora una volta ampolloso e noioso ai limiti del credibile. Ci si chiede perché Maria, a un certo punto della lunga esposizione, se ne sia andata. Secondo me per noia. Tale è stata la fatica nel procedere nella lettura, a fronte di un interesse tiepido per i falsi drammi del protagonista, che a un certo bel punto ho abbandonato l’ebook per passare all’ascolto dell’audiolibro. In questo modo sono riuscito ad arrivare alla fine e ho potuto confermare la mia opinione che si tratti di un tentativo velleitario riuscito così così.
L’ultimo erede di una dinastia decaduta, i Cimamonte, si è ritirato a vivere nella villa da sempre appartenuta alla sua famiglia. La tenuta giganteggia su Vallorgàna, un piccolo e isolato paese di montagna. Il mondo intorno, il mondo di oggi, nel quale le nobili dinastie non importano piú a nessuno, sembra distante. L’ultimo dei Cimamonte è un giovane uomo solitario che in paese chiamano scherzosamente «il Duca». Sospeso tra l’incredibile potere del luogo, il carico dei lavori manuali e le vecchie carte di famiglia si ritrova via via in una quiete paradossale, dorata, fuori dal tempo. Finché un giorno bussa alla sua porta Nelso, appena sceso dalla montagna. È lui a portargli la notizia: nei boschi della Val Fonda gli stanno rubando seicento quintali di legname. Inaspettatamente, risvegliato dalla smania del possesso, il sangue dei Cimamonte prende a ribollire. Ci sono libri che fin dalle prime righe fanno precipitare il lettore in un mondo mai visto prima. L’abilità dell’autore sta nel mimetizzarsi tra le pieghe della storia, e fare in modo che abitare accanto ai personaggi risulti un gesto tanto istintivo quanto inevitabile. È quello che accade leggendo Il Duca, un romanzo classico eppure nuovissimo, epico e politico, torrenziale e filosofico, che invita a riflettere sulla libertà delle scelte e la forza irresistibile del passato. Con una voce colta e insieme divertita, sinuosa e ipnotica – inusuale nel panorama letterario nostrano – Matteo Melchiorre mette a punto un congegno narrativo dal quale è impossibile staccarsi.