Sabbia nera

di Cristina Cassar Scalia


Il libro è piacevole a leggersi, scritto bene e pervaso di una leggerezza che conduce facilmente alla fine. L’ho audio-letto nelle mie lunghe trasferte e, complice la bravura e l’accento della lettrice Chiara Anicito, restituisce bene, per quel che ne posso capire, le sensazioni della terra di Sicilia in cui è ambientato. Unico neo nella prosa la ripetizione di termini che poco c’entrano col resto, come ‘antidiluviano’ e ‘inenarrabile’ fra i più frequenti. La vicenda ha una sua originalità, sfiora appena il tema della mafia nell’andare invece a rivangare vecchi accadimenti che riportano ai tempi andati delle case chiuse. Un ‘cold case’, oggi usa dire, che però ha ricadute che arrivano fino al presente. Fin qui tutto bene. Quello che proprio non va sono i luoghi comuni: Vanina Guarrasi è l’ennesimo vicequestore con un passato angoscioso alle spalle, coerente e credibile ma già sentito, con l’amore per la buona tavola (ancora?), che presuppone con sfacciata eleganza dalla struttura della giustizia italica, la quale, vale la pena di ricordarlo ancora una volta, prevede che le indagini stiano in capo ai magistrati, qui al solito interpellati solo per ottenere autorizzazioni varie. E poi c’è la scientifica che viene invocata ogni due per tre, c’è il medico legale che fornisce prove del DNA in tempo zero e altri loci presi dalla produzione televisiva d’oltreoceano, inclusa una singola, ma presente, citazione del mitico ‘mandato’, tanto frequente in America quanto sconosciuto alla nostra legislazione. Questo è un peccato, perché per contro i personaggi sono ben caratterizzati: la vicequestora, i membri della sua squadra, l’anziano commissario in pensione, le persone coinvolte nei fatti emergono tutti bene con personalità ben tratteggiate. Sarà la fascinazione per gli investigatori a stelle e strisce, sarà la voglia di finire in televisione (cosa che senz’altro accadrà), ma tutto quel che acquista in spettacolarità il libro lo perde in credibilità e spessore, finendo al livello da buona lettura da ombrellone. Peccato, perché certe abilità dell’autrice nel descrivere luoghi e persone lasciano percepire che potrebbe darci maggiori soddisfazioni.


Dalla Sicilia arriva una nuova serie di gialli. Ma stavolta la protagonista è una donna. Testarda, scontrosa, tormentata dalla morte del padre e dalla fine di una relazione difficile; appassionata di vecchi film e amante della buona tavola: il vicequestore Vanina Guarrasi è semplicemente formidabile. Mentre Catania è avvolta da una pioggia di ceneri dell’Etna, nell’ala abbandonata di una villa signorile alle pendici del vulcano viene ritrovato un corpo di donna ormai mummificato dal tempo. Del caso è incaricato il vicequestore Giovanna Guarrasi, detta Vanina, trentanovenne palermitana trasferita alla Mobile di Catania. La casa è pressoché abbandonata dal 1959, solo Alfio Burrano, nipote del vecchio proprietario, ne occupa saltuariamente qualche stanza. Risalire all’identità del cadavere è complicato, e per riuscirci a Vanina servirà l’aiuto del commissario in pensione Biagio Patanè. I ricordi del vecchio poliziotto la costringeranno a indagare nel passato, conducendola al luogo dove l’intera vicenda ha avuto inizio: un rinomato bordello degli anni Cinquanta conosciuto come «il Valentino». Districandosi tra le ragnatele del tempo, il vicequestore svelerà una storia di avidità e risentimento che tutti credevano ormai sepolta per sempre, e che invece trascinerà con sé una striscia di sangue fino ai giorni nostri.

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